Intervista a Cristiano Boscato, CEO @Dinova, iscritto da Forbes nella prestigiosa lista dedicata ai 100 manager più influenti d’Italia, esperto di analisi dei dati e nuove tecnologie, è anche scrittore (In una notte d’estate ho visto il futuro, Franco Angeli editore) e ama definirsi un umanista.
In BBS è Professore nei Professional Master Artificial Intelligence and Innovation Management e Data Marketing and Analytics, insegna Digital Trasformation nell’area MBAs, nell’area Open Program insegna AI per il Business e insegna all’interno dell’Executive Master in Business Analytics and Data Science.
L’informazione è oggi la merce più preziosa, la più pagata e scambiata. Informazione è dato. Come l’analisi dei dati entra nel marketing di oggi?
Analisi dei dati e marketing vanno a braccetto in realtà da molti anni: comportamento d’acquisto del cliente, trend, clusterizzazione sono temi marketing che derivano dall’analisi del dato.
Quello che sta cambiando, e che forse è la parte più interessante dell’evoluzione di questo studio, è che con il miglioramento di prestazione delle nuove intelligenze artificiali basate su algoritmi sempre più raffinati, il dato non è più “solo” analisi, ma diventa predizione. È di pochi giorni fa l’uscita di GPT4o: ci si inizia a chiedere quanto tempo passeremo in un futuro molto meno lontano di quanto ci si immagina a parlare con macchine.
Macchine capaci di adattarsi a noi, di capire i nostri desideri, ma non solo: capaci di predirli.
Non è più fantascienza l’idea di intelligenze artificiali così adattative da poterci, in poco tempo, conoscere “meglio di noi”, in grado di anticipare i nostri bisogni e desideri e, quindi, di influenzarli. Ecco che l’analisi predittiva diventa non solo studio di ciò che accade, ma possibilità di determinare ciò che accadrà in termini di customer experience e comportamenti d’acquisto.
In generale, l’analisi dei dati è uno spartiacque tra chi sopravvive e chi rimarrà indietro, magari volontariamente per dedicarsi alla nicchia, ma in realtà che non hanno a che fare col mondo business globale.
In questo scenario, qual è il ruolo delle intelligenze artificiali?
Partiamo da un esempio concreto: se compri qualcosa online e entro 15 secondi dal pagamento non ti arriva l’email di conferma tu hai un’esperienza negativa. Questo fatto banale è, in realtà, molto descrittivo: un’esperienza non coerente con le aspettative genera disaffezione. La percezione del servizio diventa fondamentale e modifica alla base il rapporto tra azienda e cliente (espresso dal marketing). È un percorso che si rinnova mano a mano che le nuove tecnologie si sviluppano perché queste cambiano il modo in cui percepiamo le cose e, quindi, viviamo in società.
Il marketing è il primo che si deve adattare. Un servizio che va più lento di altri è destinato a perdere clienti; non sposare il mondo tech sarebbe una follia.
Un altro esempio: oggi lo smartphone è ritenuto un bene essenziale. Per i non nativi digitali pare un’iperbole, ma un ragazzino di 15 anni di oggi vive il mondo online con la stessa percezione che ha del mondo reale. Così le tecnologie cambiano la realtà fisica: trasformando la percezione che ne abbiamo attraverso l’esperienza ibrida tra realtà digitale e analogica.
Intercettare i bisogni è la chiave per arrivare ai consumatori. Come le nuove tecnologie spostano il marketing dai suoi approcci più classici?
Occorre costruire l’infrastruttura capace di gestire l’acquisizione di più dati possibili legati al consumatore. Dati quantitativi, strutturali, ma anche qualitativi. Anche se non si sa perché, bisogna incamerare dati per poter sperimentare il mix ideale, il più efficace.
Per fortuna, oggi le tecnologie sono sempre più plug and play, molto meno distanti dall’uomo comune di pochi decenni fa. Questo permette una più immediata e facile fruizione delle innovazioni, ma obbliga chi vuole restare al passo a relazionarsi con queste.
La sua storia imprenditoriale con Injenia prima e Dinova ora è una storia di grande crescita. Qual è stata la chiave di questo successo?
Un commerciale che lavorava con me, all’inizio dell’esperienza Injenia, e che veniva da esperienze di vendita “classiche” mi diceva sempre che con me “le cose non stavano mai fatte”. Questo perché io ogni sei mesi cambiavo il go to market, rielaborando e rinnovando tutta la strategia.
Anni dopo, studiando la digital trasformation, mi rendo conto che quell’approccio molto naïf, quasi “istintivo” è stato la chiave del successo della nostra proposta: innovare significa proporre, cambiare, rifare anche quando le cose sembrano funzionare. La velocità della crescita tecnologica ci obbliga a essere estremamente rapidi, adattativi, aperti. Cambiare di continuo porta ad avere compagni di viaggio adatti a quel modello, menti predisposte alla flessibilità.
Quando il tema smart working arrivò con l’irrompere della pandemia sul mondo business, per noi era già cosa vecchia: in azienda non si timbravano cartellini, non c’erano orari obbligati e si puntava molto sull’autonomia dei collaboratori.
Oggi non si può fare bene marketing se non si ha alle spalle una struttura capace di seguire quella velocità. Tante aziende cedono proprio su questo passaggio: se hai il miglior chatbot del mondo e poi l’informazione si blocca, ecco che tutto il processo si inceppa.
La mia esperienza imprenditoriale si basa sull’innovazione. Per questo, penso, mi sono sentito dire molti più “no” che “sì” nella vita, ma è lo scotto da pagare se si vuole guardare sempre un passo avanti.
L’innovazione è al centro della sua esperienza lavorativa. Da sempre, lei promuove un percorso di cambiamento culturale, prima ancora che tecnologico. Che impatto ha e avrà questo “rinnovamento” nel comparto marketing delle grandi aziende?
Parlando di tecnologia non si può non parlare di change management. La vera difficoltà, oggi, non è il mondo tech, ma l’approccio culturale a questo.
Fino a pochi anni fa la tecnologia era molto complessa e ad appannaggio solo di “esperti”. È un retaggio su cui si sono formate molte aziende. Oggi, pensare a un ufficio centrale che gestisce tutto ciò che è tecnologico circondato da analfabeti digitali è pura follia: non si fa marketing bene se non si conoscono 50 software che lavorano per il marketing delle aziende.
Ma, per comprendere come una tecnologia funziona, occorre cultura: il dato tecnico, oggi, è spesso molto semplice, intuitivo. È la predisposizione a comprenderlo e maneggiarlo che fa la differenza.
Siamo a metà del guado: l’approccio al cambiamento deve essere scalare, creare nuove abitudini. In un’azienda si deve partire dall’alto, con l’elemento abilitatore che da il via. Il resto seguirà quell’esempio.
Sogno una realtà in cui nativi digitali dialoghino con i saggi digitali, chi non è nato in questo mondo e, proprio per questo – se ha curiosità e cultura -, può guardarlo dall’esterno, mentre ne è coinvolto.
Oggi nessuno è al riparo dal cambiamento: che si sia su un transatlantico o su un motoscafo, questo iceberg non è fermo in mezzo al mare. Si muove, ti viene addosso. Non basta cambiare direzione, occorre essere capaci di reagire con la stessa velocità e potenza. Occorre un umanesimo tecnologico capace di gestire gli strumenti che gli sviluppatori continuano a mettere a disposizione.
Per questo, i corsi di Bologna Business School hanno un plus rispetto agli altri Master di pari livello: perché sono fondati su un sapere ibrido che appartiene alla scuola fin dalla sua nascita. Perché l’incontro fra tecnologia, sapere e business è una delle basi della creazione di BBS e fa parte del suo DNA.
Studiare qui significa appartenere a una generazione di manager e imprenditori che sanno in che mondo vivono, ne conoscono gli strumenti e hanno la capacità culturale di usarli al meglio. Una garanzia per storie di successo.