di Eugenio Sidoli
Qualche settimana fa sono stato invitato da Franco Visani – direttore dell’Hybrid MBA con il quale collaboro da qualche mese – a uno scambio di esperienze sul tema “Boss, Leader e Mentor. Tra mito e realtà”. Una Open Lecture che intendeva fare il punto su un tema che considero vitale per il successo di qualunque impresa: lo sviluppo delle persone o del “capitale umano” per dirlo in termini più aulici.
La mia trentennale esperienza di Executive in un’azienda multinazionale, all’interno della quale ho scoperto e vissuto la diversità come un valore e la gestione del talento come una parte fondamentale della mia responsabilità manageriale, mi ha insegnato a distinguere tra chi esercita un ruolo senza averne le competenze, chi ha il profilo di leadership per guidare altri (a volte anche senza averne il titolo) e chi svolge il silenzioso compito di guida e di mentore affiancando persone di ogni livello organizzativo in un percorso di crescita personale e professionale.
Spesso gli ultimi due ruoli – quello di leader e di mentore – coincidono, ma non necessariamente. La distinzione tra boss e leader è facile: un boss è un ruolo, un supervisore, un’autorità, un job title; la leadership è invece “contenuto”, è managerialità, autorevolezza,competenza, esperienza: qualità che servono per esercitare con efficacia un ruolo di comando.
Leadership non è una qualità innata, è somma di qualche predisposizione naturale e di molte caratteristiche allenabili. Esiste, ormai, un’ampia letteratura che accerta che la genetica – nella leadership – conta solo per il 25-30% delle qualità che sono necessarie; il 75-80% è pratica, esperienza e sforzo costante teso al miglioramento delle proprie capacità. Laddove alcuni individui manifestano una precoce predisposizione al comando e falliscono per egocentrismo, incapacità di ascolto e incompetenza nelle soft skill, la formazione di un leader è un percorso nel quale l’apprendimento dipende dall’azione, dagli errori, dall’assunzione di responsabilità, dall’accettazione dei feedback e dalla messa in pratica di ciò che si è appreso.
La materia prima per formare un leader d’impresa è la medesima che serve per nominare un boss. La differenza non è nel quoziente intellettivo, ma nella capacità di arricchire l’intelligenza razionale con intelligenza emotiva, intelligenza politica e spiritualità. Ho incontrato manager molto intelligenti ma senza alcuna predisposizione alla leadership e persone “ordinarie” a cui un giorno è stata offerta l’occasione di assumersi una responsabilità in modo autonomo ed hanno risposto con coraggio e determinazione, affermandosi per autorevolezza. La responsabilità del leader implica anche il saper guidare altri e un corollario a tale responsabilità è che si dovrebbe assumerla solo quando ci si sente pronti. Alle fondamenta del percorso di crescita manageriale ci sono l’autoconsapevolezza e la fiducia in se stessi. La prima implica conoscenza delle proprie capacità e dei propri limiti, fondamentale per focalizzarsi sulle proprie aree di miglioramento, la seconda è apprendimento di ciò che serve per gestire le proprie emozioni, o “frustrazioni”, come preferisco chiamarle io, perché tengono in ostaggio la parte migliore di noi: la timidezza, l’orgoglio, l’ira, l’ambizione, la gelosia, la generosità, ecc.
Il management è, in larga parte, governo delle proprie e delle altrui frustrazioni ed il percorso di crescita necessario a diventare un leader è costellato da prove e momenti di confronto, soprattutto con sé stessi.
L’auto-apprendimento nell’esperienza manageriale ha costi alti. La possibilità di confrontarsi con qualcuno che abbia già fatto quel percorso e possa affiancarci in una parte del cammino, è quindi molto utile. Un boss dovrebbe saperlo fare, ma spesso non è così ed è quindi utile individuare qualcun’altro: un mentore.
Mentoring è soprattutto ascolto e indirizzo. Il mentore ha una funzione maieutica. L’ho appreso sulla mia pelle, incontrando mentori che hanno avuto un’influenza importante nella mia crescita personale e professionale: mi hanno aperto prospettive e mi hanno aiutato a superare difficoltà; mi hanno spinto a osare e ascoltato nei momenti del fallimento; hanno celebrato i miei successi e non mi hanno mai chiesto nulla in cambio.
Il mentore – al contrario del coach – non è una figura istituzionale, non è un tipico ruolo aziendale e non è inquadrabile. Chi ha predisposizione a fare il mentore emerge da solo, diventa un riferimento in azienda ma non ha un incarico per quello che fa. Differenza tra coaching e mentoring è anche l’orizzonte temporale: il coach lavora sul “qui e ora”, la performance; il mentore sulla crescita di lungo periodo e sulle scelte che influenzano una carriera, il potenziale. Il mentore non dà soluzioni ma indica una via e sollecita una riflessione. La relazione con il mentee nasce in modo spontaneo. Mentoring è piacere di condividere esperienze a beneficio di chi dimostra interesse per ciò che possiamo dare; nasce per affinità elettiva ed è una relazione nella quale il mentee gestisce il suo mentore.
Nella mia carriera ho fatto coaching per ruolo; ho svolto settimane di shadowing per futuri managing directors, ho sviluppato durature relazioni da mentore con alcuni colleghi più giovani e anche con giovani professionisti incontrati fuori dalla mia realtà aziendale. Fino a qualche mese fa la mia esperienza era sempre stata one-to-one.
Grazie a Franco e a BBS ho avuto la possibilità di sviluppare un progetto di mentoring one-to-many con una popolazione eterogenea di executives con i quali ho discusso ed esplorato l’area delle competenze trasversali nella costruzione della leadership e di una carriera. Un confronto ricco e stimolante.
Un fatto, in quest’ultima esperienza, mi è apparso evidente. Molte imprese investono ingenti risorse nello sviluppo di piani di marketing per i loro prodotti ma, al di là degli annunci nelle loro pagine web, non sviluppano piani di marketing, cioè career development plans, per le loro persone. Nominano boss, ma non investono nella formazione di quelle competenze manageriali che formano leader. Non hanno fuoco sui processi che fanno crescere il loro capitale umano.
Ritengo che l’assenza di fuoco sullo sviluppo delle persone – al di là delle tematiche di genere e di inclusione della diversità che appaiono sempre più urgenti – sia il più grande limite alla crescita dell’economia Italiana. Un mentore lavora sul trasferimento di esperienza, sviluppa managerialità e ispira attenzione alle competenze trasversali che caratterizzano la leadership. Le migliori persone, quelle che costruiscono il futuro della nostra società. fuggono i cattivi boss ma seguono leader ispirati, che sappiano guidarli, che offrano loro uno scopo all’impegno professionale e che sappiano infondere energia in quel progresso di cui le imprese hanno bisogno per mantenere la loro competitività.
A quei leader è dedicata questa riflessione.