Stevie Kim, nel suo ruolo di Managing Director per Vinitaly International, è considerata l’ambasciatrice del vino italiano nel mondo. Le sue origini orientali fanno di lei la rappresentante più adatta e credibile del Made in Italy nel difficile mercato cinese. In questo dialogo ci spiega il perché.
Stevie Kim, ci racconti com’è il consumatore cinese
Intanto bisogna sottolineare quanta attenzione ci sia per il mercato cinese. Se ormai quello statunitense è oggi da considerare un mercato maturo, al contrario quello cinese è ancora vergine. Parliamo di un contesto dove si consumano soprattutto distillati di riso fermentato, del tutto diversi dal vino. Ma anche di un Paese dove si sta vivendo una fase culturale in cui le persone sono particolarmente influenzate dallo stile di vita occidentale, del quale subiscono il fascino e desiderano coglierne i frutti migliori. I cinesi sono nati per esportare, hanno una cultura mercantile millenaria. Ma oggi la classe media è pronta per l’acquisto di beni di lusso e sta cominciando a conoscere il vino. Parliamo di una conquista che necessita di una arco di tempo che andrà dai cinque ai dieci anni.
Che ruolo sta giocando l’Italia in questa partita?
La nostre esportazione di vino è di un decimo rispetto a quella francese. C’è ancora molto da fare perchè si paga quella caratteristica, che può sembrare stereotipata, dell’italiano tutto creatività ma individualista. Penso in particolare alla frammentarietà dei tanti gruppi, consorzi, enti certificatori che rischiano di creare confusione nell’identificazione del prodotto. Per spiegarmi meglio, se è difficile per il consumatore italiano essere consapevole della differenza fra doc e docg, figuriamoci per quello cinese.
E allora come si deve procedere?
Identificando sempre più il Made in Italy con l’immagine di uno stile di vita di gran qualità. Il Made in Italy come marchio rischia di non vendersi più da solo. Ha bisogno di qualche contenuto in più. Al contrario lo stile italiano è ancora percepito come il migliore. Ed è per questo che ritengo che la mossa vincente sia portare i consumatori cinesi in Italia, fare vivere loro direttamente l’esperienza della bellezza del paesaggio, dell’arte, della cultura anche enogastronomica. Anche perché in un mercato difficile come quello cinese, che non ha fiducia nei testimonial occidentali e che non subisce il fascino dei leader dei grandi marchi, non c’è migliore ambasciatore di un connazionale entusiasta. Chi conosce le modalità delle trattative, le regole di ingaggio, sa che non è più sufficiente conoscere la lingua. Per penetrare nel mercato cinese è necessario avere dei portavoce locali che siano credibili. Come si dice, think global act local.
Quali le ragioni di un mercato così chiuso alla cultura estera?
Sicuramente molto è dovuto ai fattori politici. Stiamo parlando di un Paese dove il governo è pervasivo, entra nel controllo del mercato rendendolo meno libero. Inoltre le tasse doganali cambiano continuamente, rendendo estremamente difficoltoso il commercio con l’estero. In un contesto di questo tipo, dove controllo e censura vanno insieme, emergono soprattutto figure di businessmen dalle attitudini aggressive. E’ chiaro che le regole di ingaggio diventano veramente complesse, e anche in questo caso è necessaria l’intermediazione di persone locali. In questo senso una realtà come la Bologna Business School, con la sua community cosmopolita, diventa fondamentale nella formazione di studenti orientali preparati a svolgere questo ruolo chiave.
A proposito della community degli studenti, quali consigli si sente di dare ai leader del futuro?
Sviluppate il vostro lato creativo e fate di tutto per trasmetterlo a chi lavora con voi. Il leader deve essere in contatto con il suo team, deve essere il driver dei cambiamenti e delle innovazioni. Agire avendo sempre come obiettivo la sopravvivenza della propria visione rispetto alla propria presenza. La qualità più grande di un leader è rendere facile una cosa difficile, tradurre la complessità in semplicità. Rendere accessibile la conoscenza. Parlare in codice, che è stato un po’ il vizio di tanta classe dirigente italiana per niente propensa alla condivisione, non è certamente il futuro. E’ ora di cambiare il linguaggio.