La fashion industry, tra etica e sustainability

Febbraio 17, 2020

Facciamo un piccolo test: nei nostri armadi quanti sono i vestiti che riportano sull’etichetta l’indicazione Made in Bangladesh o Vietnam? E quanti di questi capi sono stati acquistati nell’ultimo mese?

Dell’impatto ambientale e sociale della moda si parla e si scrive molto: e anche se non tutti concordano sulla gravità del primo, sulle condizioni di vita dei lavoratori del settore non ci sono voci fuori dal coro, e molti marchi – spinti anche dalle sensibilità delle nuove generazioni di consumatori – si stanno muovendo per certificare il rispetto dei diritti umani nella propria filiera produttiva.

Lato ambiente, al netto dei giusti distinguo, è importante non sottovalutare l’impatto effettivo di una industria con una filiera strutturalmente impegnativa dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse e dell’impatto dei processi produttivi: come riportato dal documentario The True Cost, nella sola di Kanpur, la capitale indiana delle esportazioni di cuoio, ogni giorno vengono scaricati 50 milioni di litri di prodotti chimici nel fiume, contaminando l’acqua potabile a cui ha accesso la popolazione.

La domanda rimane: qual è il vero costo dell’industria della moda sui lavoratori e sull’ecosistema? E come ridurre tale impatto?

Ne abbiamo parlato con Matteo Mura, Direttore Scientifico del Global MBA in Green Energy and Sustainable Businesses, Professore Associato di Ingegneria Gestionale presso il Dipartimento di Scienze Aziendali dell’Università di Bologna e Visiting Professor presso il Centre for Business Performance della Cranfield School of Management. “La moda è indubbiamente uno dei settori più impattanti in assoluto: si pensi ai processi produttivi che utilizzano solventi di tipo formaldeide, fortemente inquinanti e cancerogeni. La carenza di una regolamentazione ambientale nei Paesi in via di sviluppo in cui tanto i grandi brand, come le aziende di fast fashion esternalizzano la produzione è al centro di protocolli di intesa internazionali: proprio in queste ore a Strasburgo si sta discutendo sull’urgenza di definire con il Vietnam degli accordi commerciali che assicurino garanzie minime per la salute e la tutela dei lavoratori”.

Tra le alternative virtuose del settore moda, Mura cita Patagonia, il brand californiano che dagli anni Settanta fa leva su un concept eco-sostenibile: ”Il 40% dei capi di questo marchio è prodotto in stabilimenti certificati Fair Trade, che versano un bonus direttamente agli operai. Per policy aziendale i clienti sono invitati ad acquistare di meno, con riparazioni gratuite e forti sconti per chi compra un capo nuovo riportando indietro il vecchio. L’utilizzo di materie prime biologiche è stato condiviso da una decina di anni a questa parte anche da Ikea, che ha abbandonato il cotone industriale a favore di filiere di cotone organico“.

A chi continua a produrre in modo non ecosostenibile verrà presto presentato il conto: “Il Green New Deal è alle porte – conclude Mura - e potrebbero presto essere introdotte delle tassazioni sui prodotti realizzati al di sotto di determinati standard ambientali nel momento in cui faranno il loro ingresso nel mercato europeo, come previsto dalla Cross Border Carbon Tax”.



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