Mario Calabresi, Direttore di La Repubblica, ha inaugurato lo scorso 5 febbraio l’edizione primaverile degli Innovation Talks 2018. Storie di innovazione organizzativa è il titolo della sua lecture densa di aneddoti e riflessioni sul cambiamento, necessario ma spesso difficile da affrontare, portato sotto la sua guida nel cuore di due pilastri della carta stampata del nostro paese.
“Inizialmente si è pensato che il sito internet di un giornale servisse solo a dare maggiore visibilità alla testata. Non si era colto il fatto, e a pensarci oggi sembra un atteggiamento suicida, che il digitale era concorrenziale alla carta stampata e che l’informazione gratuita a disposizione di tutti avrebbe presto mangiato tutto il resto,” inizia Calabresi ricordando l’avvento dei siti internet e gli inizi della migrazione dell’informazione sulla rete. Un processo che ai suoi esordi sembrava meno insidioso e veloce di come poi si è rivelato. “Si era talmente convinti della forza del prodotto tradizionale e si era talmente abituati al fatto che da oltre un secolo il giornale cartaceo fosse centrale nel dibattito pubblico e nella formazione dell’opinione, che si vedeva il digitale solo come un’aggiunta. Allo stesso modo succedeva con la pubblicità che continuava a chiedere investimenti sulla carta, mentre il digitale, considerato un sistema laterale, veniva messo on top delle campagne.”
Ciò che negli Stati Uniti comincia già presto a rappresentare un problema per l’editoria tradizionale, colpisce il sistema italiano solo alcuni anni dopo. Certamente la causa può essere ascritta ad un certo ritardo nella diffusione delle nuove tecnologie, ma soprattutto ad una miopia data dalla florida situazione in cui versavano gli editori e gli edicolanti grazie ad una gallina dalle uova d’oro apparsa nei primi anni 2000: i collaterali. La Repubblica, così come altre testate, cominciò ad allegare alle copie del proprio giornale enciclopedie, libri, guide e film, arrivando a record assoluti quali le 700.000 copie vendute in un solo giorno nel 2003 grazie al primo libro di una collana di imperdibili del ‘900. Quando improvvisamente i collaterali vengono meno – da un lato a colpirli è la crisi che avanza ma anche una certa saturazione del mercato – ci si ritrova dinanzi ad un’inaspettata battaglia per l’attenzione del lettore, sempre più spesso vinta dal digitale. Anche la pubblicità comincia a migrare verso i nuovi media e ciò che prima veniva pagato 100 sulla carta, diventa 10 sul digitale.
È in questo contesto di crisi, economica ma forse soprattutto di consapevolezza e di identità del mondo dell’informazione, che Mario Calabresi diventa direttore di La Stampa. “Era il 2009, un momento disperato. Il tema era far capire a chi era abituato a lavorare sempre allo stesso modo, che era tempo di cambiare. Talmente le vite delle persone erano plasmate su determinati ritmi di lavoro, che sembrava impossibile.”
“L’ultima cosa che ho fatto prima di lasciare gli Stati Uniti,” continua Calabresi, “è stato comprare su eBay l’ultima copia di un giornale che si chiamava Rocky Mountain News.” Il giornale in questione vendeva lo stesso numero di copie ed era nato più o meno negli stessi anni di La Stampa. Era di soli 6 anni più giovane e perdeva la metà dei soldi. “Se voi pensate che si possa vivere come si viveva prima, questo qua è il destino segnato,” dissi quando incontrai per la prima volta la mia nuova redazione, mostrando loro la copia di quel giornale.
Bisognava cambiare, in modo intelligente ma soprattutto veloce. “Pochi giorni dopo il mio arrivo c’era la giornata nazionale dell’ambiente e io avevo proposto di far uscire il giornale con la testata verde, come avevo visto fare qualche anno prima al Time Magazine. Mi è stato subito detto che non si può fare, semplicemente perché non si era mai fatto. Poi hanno introdotto come argomento un tecnicismo tutto italiano, dicendomi che la testata depositata presso il tribunale era in nero. Quella volta ho mollato il colpo, ma l’anno successivo sono andato dagli stampatori ed ho chiesto il favore di farmi stampare delle testate in verde. Il giorno dopo, anziché chiedere se si poteva fare, ho attaccato 6 prime pagine con le testate in diverse tonalità di verde al muro della sala riunioni, chiedendo ai miei collaboratori di firmarsi sul foglio con il colore che preferivano. Immediatamente, non avendo parlato esplicitamente di cambiamento, l’attenzione si è spostata sul tipo di verde con un’accesa discussione sui pantoni. Questo mi ha fatto capire che bisognava usare degli escamotage per fare cambiare le cose.”
Serviva però anche un cambiamento fisico per affrontare quella trasformazione. Quando Calabresi arriva a La Stampa, la redazione digitale e quella dell’edizione stampata sono a 250m di distanza tra loro. Inoltre, le due redazioni avevano software e sistemi editoriali diversi, che non parlavano tra loro. “Prima ho voluto cambiare il sistema editoriale, poi il layout del giornale. Mi sono presto reso conto che le resistenze che incontravo rendevano il tutto impossibile. Alla fine ho fatto quello che tutti mi avevano sconsigliato di fare: cambiare tutto insieme. Cambiammo sede e durante i lavori prendemmo un call-center con due grandissimi open space dove costruimmo una redazione molto innovativa, con due cerchi concentrici, in cui al centro stavano i capi redattori centrali e intorno tutti i settori (cultura, esteri, spettacolo, economia, ecc.) mescolati tra loro quelli del sito, dei social e della carta. Così nello stesso giorno abbiamo fatto la nuova redazione, l’integrazione dei settori ed un nuovo sistema editoriale. Il cambiamento fatto tutto insieme non ha lasciato spazio a nessuno perché si organizzasse in difesa. Le persone si sono trovate spaesate ma anche affascinate dalla novità.”
Secondo Calabresi, se vuoi fare innovazione ti devi anche far carico di coloro che hanno nostalgia della tradizione. “Ad un certo punto mi sono reso conto che una parte della redazione diceva: ma noi abbiamo lasciato una sede storica, dove finisce la nostra storia? Ho deciso che nel cuore di questa nuova sede avremmo messo la storia del giornale. Abbiamo fatto un museo nel bel mezzo della nostra redazione, che nei primi 6 mesi è stato visitato da 20.000 persone.”
Nel 2015 Mario Calabresi approda alla direzione di La Repubblica. “È un giornale più grosso di La Stampa ma aveva un problema: io l’ho trovata con i conti a posto. Cambiare in un luogo dove i conti sono in attivo è molto più difficile che farlo dove le cose vanno già male,” ricorda Calabresi quei primi mesi nel suo nuovo ruolo. “La prima mattina che sono arrivato erano le 7.50 e c’era di turno una sola persona, mentre tutti gli altri arrivavano alle 9. Nel mese precedente avevo studiato i numeri, specialmente quelli del digitale. Avevo visto che la curva del sito di Repubblica partiva alle 6.30 del mattino, aveva il suo picco alle 8.30 e alle 9 iniziava a scemare. La battaglia del mattino per conquistare 1,5 milioni di lettori vedeva perciò schierata una sola persona, mentre alle 21.30 della sera c’erano circa 350 persone che si occupavano delle 250.000 copie della carta. I costumi cambiano e con loro dovevamo cambiare anche noi.”
Calabresi capì subito che la redazione doveva essere attiva già di prima mattina. “Se noi siamo capaci di rispondere la mattina presto e in quell’ora e mezza dare contenuti nuovi, sviluppare i temi della notte, dare una nuova chiave di lettura ai fatti successi il giorno prima e di portare tutto questo sui social, possiamo davvero fare la differenza. Quando sono arrivato a La Repubblica la distanza media tra il nostro sito e quello del Corriere era del 20%. Oggi è raddoppiato. Il giorno della tragedia di Pioltello Repubblica ha fatto il 63% di utenti unici in più del Corriere. Era successo alle 8 del mattino e noi già avevamo 15 persone che lavoravano.”
Cambiare i ritmi produttivi e gli orari di chi lavora non è un processo semplice da affrontare. “Allora dissi: facciamo un bando, chiediamo chi vuole venire alle 7 del mattino e andare via alle 15? Chi vuole venire alle 8 e andare via alle 16? Chi ha voglia di riscoprire cosa vuol dire andare a prendere i figli a scuola, andare al cinema o fare un aperitivo? Abbiamo dovuto mettere i cancelli, volevano venire tutti alle 8. Se glielo avessi imposto, ci sarebbe stata la resistenza, le battaglie sindacali. Avendola proposta come opportunità è stata vista per quello che era, un’opportunità e non un obbligo.”
Non solo i tempi delle notizie dovevano cambiare, ma anche il modo di darle. Nessuno apprende più le notizie dal giornale, sono praticamente nell’aria. Il giornale deve essere in grado di dare un approfondimento, una nuova chiave di lettura sui temi principali. “Ho cominciato a dire che dovevamo scegliere due soli approfondimenti, una testata informativa deve prendersi la responsabilità di dire qual è il fatto del giorno. Per fare questo ho cambiato due cose: la gabbia grafica del giornale, che impone un ripensamento del contenuto, e per secondo l’organizzazione del lavoro. Durante la riunione della mattina, ogni settore propone un tema principale tra i quali scegliere i fatti del giorno. Inoltre, nelle pagine abbiamo inserito degli elementi grafici che ci impongono di spiegare esattamente di cosa stiamo parlando perché molto spesso le cose vengono date per scontate.”
I cambiamenti nelle strutture complesse devono essere fatti in tre modi: devono essere totalizzanti, bisogna conquistare i cuori e le menti delle persone, e l’attenzione non deve concentrarsi tutta solo sui passi da fare, ma bisogna costruire parallelamente anche un piano per affrontare imprevisti e resistenze. La lecture di Calabresi ci lascia con un’importante insegnamento sulla necessità di riconoscere i cambiamenti ambientali, trovare l’innesco per attivare i processi di trasformazione e soprattutto sul bisogno di saper gestire correttamente l’insicurezza e la resistenza che il cambiamento scatena nelle persone.
Un giornale che è fedele al suo scopo si occupa non solo di come stanno le cose, ma di come dovrebbero essere.
(Joseph Pulitzer)