Le aziende investono milioni di euro nel reclutare persone che facciano al proprio caso e che permettano loro di conseguire i propri obiettivi di crescita. Nel tentativo di ridurre i costi ed i rischi di questo processo – assumendo per esempio candidati che non matchano i profili richiesti o che lasciano la nuova azienda entro pochi mesi, una realtà molta diffusa tra i giovani nota con il termine ‘shopping around’- numerose aziende negli ultimi anni stanno ricorrendo ad algoritmi, confidando nella loro efficacia, secondo quanto dimostrano alcuni studi.
Ad esempio, una recente ricerca condotta dall’Università di Toronto in Canada che ha passato in rassegna oltre 17 studi sulle diverse valutazioni dei candidati fatti da umani ed algoritmi, ha evidenziato che il reclutamento fatto attraverso gli algoritmi risulta più efficace del 25% (su tre parametri quali: valutazione del capo, numero di promozioni e abilità di apprendimento a seguito di un training) rispetto alle assunzioni fatte dai recruiter tradizionali, indipendentemente dalla posizione per la quale viene fatto il colloquio di assunzione.
Il motivo di questo successo? Un algoritmo è in grado di attribuire il corretto peso alle informazioni presenti sul CV (come ad esempio, il peso attribuito alla laurea, ai corsi di perfezionamento, alle esperienze precedenti, e così via) mentre l’essere umano potrebbe decidere di basare la sua scelta su aspetti del CV meno rilevanti, come ad esempio attribuire una valutazione più alta ad un candidato solo per il fatto di aver studiato nella stessa università del recruiter.
Ma davvero gli algoritmi sono una panacea per tutti i mali? Come discusso nel corso Digital HR &People Analytics, organizzazioni come Amazon hanno deciso di ridurre l’utilizzo degli algoritmi nel processo di reclutamento per alcuni “effetti indesiderati” e potenzialmente discriminatori. Ad esempio, l’algoritmo di Amazon, basandosi sullo storico delle performance evaluation dei vari dipendenti, continuava ad attribuire punteggi inferiori ai candidati donne rispetto agli uomini a causa della storica disparità numerica tra uomini e donne. Simili criticità si riscontrano in altre aziende con algoritmi che sistematicamente attribuiscono valutazioni più positive ai candidati bianchi rispetto ai candidati di colore, perpetuando storici stereotipi che le nuove tecnologie dovrebbero aiutare ad eliminare.
Lo studioso Peter Cappelli, in un recente contributo apparso su Harvard Business Review, sottolinea con un ulteriore esempio i rischi potenziali legati all’utilizzo esclusivo degli algoritmi per effettuare il reclutamento dei candidati. Ad esempio, è risaputo che la distanza del tragitto lavoro-casa incide sul turnover dei candidati: i candidati che hanno una distanza maggiore da percorrere per raggiungere il proprio posto di lavoro sono anche coloro che hanno anche un tasso di abbandono più elevato. Questo potrebbe indurre un algoritmo ad attribuire un punteggio più basso a questi candidati rispetto a coloro che hanno una distanza minore. Tuttavia, la scelta di dove alloggiare dipende da molti fattori, primo fra tutti il costo di acquisto/affitto dell’appartamento che è legato al reddito individuale. Penalizzare chi abita lontano dal lavoro potrebbe significare escludere dal processo di reclutamento coloro che abitano in aree periferiche e più disagiate, penalizzando quindi gli appartenenti alle minoranze.
Quale soluzione è possibile adottare? In molte aziende si diffondono sempre più spesso soluzioni miste in cui gli algoritmi sono utilizzati per effettuare una prima ed accurata selezione dei migliori profili, lasciando ai manager il compito di effettuare la scelta finale su una rosa ristretta di candidati. In modo analogo, diverse aziende stanno investendo per ampliare i database su cui lavorano gli algoritmi, aggiungendo migliaia e migliaia di osservazioni a quelle preesistenti con l’obiettivo di “addestrare” le macchine ad esprimere giudizi più accurati.
Altri studiosi propongono soluzioni più innovative per porre un freno al tema del crescere dei costi del reclutamento. Se selezionare nuovi talenti è cosi difficile e costoso, una possibile soluzione potrebbe essere quella di ridurre il fabbisogno di reclutamento, non nell’ottica di impedire o limitare la crescita dell’organizzazione, quanto piuttosto nell’ottica di favorire un più alto tasso di retention interno. Per far ciò, è consigliabile investire sul processo di onboarding e socializzazione – temi trattati durante il corso Recruitement e Onboarding – affinché i neoassunti siano messi in condizione di essere produttivi sin dal primo giorno e sentirsi integrati nella nuova realtà: quasi il 50% dei neoassunti lascia l’azienda prima del compimento del primo anniversario. Un’ulteriore efficace strategia consiste nel promuovere le eventuali posizioni libere nel mercato interno per favorire una maggiore mobilità del personale. Questa strategia si è dimostrata molto valida nel ridurre il tasso di turnover in aziende quali Credit Suisse che, analizzando le varie cause del turnover del personale, ha riscontrato che per persone che cambiano frequentemente ruolo all’interno della propria organizzazione sono più restie a lasciarla. Oggi l’azienda posta internamente oltre l’80% delle candidature e propone anche delle posizioni a candidati specifici quando intravede opportunità di crescita.
Autori Gabriele Morandin e Marcello Russo
Co-Direttori Scientifici del Master in HR & Organization
Alcune idee inserite in questo contributo sono prese dal seguente articolo: Cappelli, P. 2019, “Your Approach to Hiring is All Wrong”, Harvard Business Review