I progressi scientifici che hanno le proprie origini nella ricerca universitaria formano spesso le basi per l’innovazione tecnologica nel “mondo reale”. Un ruolo chiave ce l’hanno quei ricercatori universitari che, attraverso quella che può essere definita come “imprenditorialità accademica” portano sul mercato le proprie scoperte. L’attività imprenditoriale dei ricercatori, insomma, alimenta l’innovazione tecnologica e le sue applicazioni. Alcuni, attratti completamente da quest’attività, diventano imprenditori a tempo pieno. Ma molti altri restano all’università.
Cosa succede alla loro attività di ricerca quando vengono presi anche, in termini di tempo e di energie, da quella imprenditoriale? Qualcuno ritiene che sia inevitabile che il tempo dedicato alla ricerca diminuisca e questa riceva minor attenzione. Qualcun altro che le motivazioni commerciali possano prendere il sopravvento su quelle scientifiche.
Riccardo Fini, dell’Università di Bologna e della BBS, e due colleghi della business school dell’Imperial College di Londra, hanno provato a rispondere a questa domanda analizzando i dati derivanti da un campione di circa 9.500 accademici che hanno lavorato allo stesso Imperial College, un’università dove l’attività di ricerca è molto intensa, e dove nel decennio a partire dal 2001 quasi il 7% dei membri del corpo docente sono stati impegnati in attività imprenditoriali. Lo studio, “Attention to Exploration”, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Organization Science, arriva a conclusioni opposte a quelle degli osservatori più scettici. Non solo le attività imprenditoriali degli accademici non danneggiano la qualità della loro ricerca, ma anzi finiscono per migliorarla. “Quando gli accademici sono coinvolti nella commercializzazione della ricerca – sostiene lo studio – tendono ad allargare lo scopo del proprio lavoro accademico”. La partecipazione a un’attività imprenditoriale costringe insomma i ricercatori a maggiore interdisciplinarietà, spingendoli su terreni di ricerca nuovi che diversamente non avrebbero esplorato. Una “esplorazione” di nuove aree della conoscenza che forse non avrebbero affrontato se fossero rimasti dentro i confini della propria disciplina come vengono definiti dal mondo accademico e non si fossero dovuti confrontare con i problemi posti dalla commercializzazione. E’ proprio indirizzarsi verso l’esplorazione che consente agli scienziati di generare ricerca di maggiore impatto, mutuando concetti e framework dal mondo della tecnologia a quello scientifico. La ricaduta avviene in questo caso dall’attività imprenditoriale su quella scientifica.
Nelle interviste condotte per lo studio, alcuni ricercatori rivelano come la loro ricerca sia stata orientata dall’esposizione a nuove aree, anche portando ad applicazioni su settori diversi da quelli originari, o introducendoli a nuovi problemi. Anche l’esposizione a professionalità diverse, con le quali non erano venuti in contatto in precedenza, come scienziati che lavorano nell’industria o esperti di commercializzazione, ha aperto nuove frontiere alla ricerca e stimolato nuovi approcci. I ricercatori universitari si sono in buona sostanza dedicati maggiormente ad affrontare problemi del mondo reale invece che temi puramente accademici, spesso di portata più limitata.
La questione degli spillover dall’attività imprenditoriale svolta dagli accademici alla loro attività di ricerca non è di poco conto. Nei maggiori Paesi industriali riuniti nell’Ocse, ci sono quasi un milione e mezzo di ricercatori nelle istituzioni universitarie. La loro ricerca costa 230 miliardi di dollari (oltre 200 milioni di euro). Non tutti, ovviamente, possono lavorare in start-up o oltre iniziative commerciali, né è auspicabile. Tuttavia, è importante sapere che, in certe aree della ricerca e a certe condizioni, ci sono dei vantaggi per la scienza dal fatto che i ricercatori possono essere “distratti” e spinti a “esplorare” percorsi di ricerca che esulano dalla loro disciplina. Le università stesse potrebbero offrire sostegno a quei ricercatori che hanno idee interessanti per la commercializzazione e ambizioni imprenditoriali, ricavandone un miglioramento nella produzione scientifica, in quanto l’attività imprenditoriale svolta dagli accademici può rispondere non solo al suo scopo primario di generare innovazione, ma anche favorire il progresso scientifico. Le business school quindi, coniugando la logica scientifica e commerciale, divengono istituzioni centrali nel favorire la valorizzazione dei risultati nella ricerca, favorendo la nascita e crescita di realtà imprenditoriali, fondamentali per lo sviluppo tecnologico ed il benessere dei paesi.