Le compagnie petrolifere sono un attore decisivo nella soluzione della crisi climatica e nella transizione energetica. Hanno il potere e le risorse per orientarla verso il mantenimento dello status quo con l’uso dei combustibili fossili o verso lo sviluppo di alternative rinnovabili. Hanno a lungo esercitato questo potere e queste risorse per influenzare il risultato verso la prima opzione. Sono però a loro volta suscettibili a pressioni dell’ambiente esterno sulle loro scelte strategiche.
Uno studio di tre ingeneri gestionali dell’Università di Bologna valuta quali sono state queste pressioni, dal punto di vista socio-politico ed economico, e quale è stata la risposta delle compagnie, e conclude che finora si sono rivelate insufficienti.
L’analisi si concentra su 12 compagnie europee e sul periodo 2005-2019, diviso in tre fasi. Nella prima, dal 2005 al 2010, le pressioni sono arrivate soprattutto dalla politica, con l’attuazione in Europa di una serie di misure seguite alla ratifica del protocollo di Kyoto. Questo ha provocato una diversificazione da parte dell’industria petrolifera, che ha cominciato a investire in rinnovabili e ridotto le emissioni di gas serra. Nella seconda fase, dal 2011 al 2016, anche in seguito alla crisi finanziaria globale, le condizioni economiche sono tornate favorevoli ai combustibili fossili e gli sforzi precedenti hanno perso impeto. Dopo l’Accordo di Parigi, dal 2017 al 2019, la tendenza si è invertita nuovamente e le pressioni si sono accentuate da parte delle politiche pubbliche europee a favore delle rinnovabili e successivamente la creazione dell’obiettivo di zero emissioni nette per il 2050 da parte del Green Deal dell’Unione Europea. Ma anche la società civile si è fatta maggiormente sentire, soprattutto attraverso le proteste dei giovani, e gli investitori hanno a loro volta cominciato a disinvestire dai combustibili fossili. Le compagnie hanno risposto a queste pressioni aumentando i propri investimenti in energie rinnovabili.
Il risultato finale, secondo gli autori dello studio, è stato insufficiente perché a lungo la fonte primaria della pressione sulle compagnie sono state le politiche pubbliche, senza segnali da parte della società civile e degli altri attori economici. Solo con l’allineamento delle pressioni esterne ci sono stati progressi. Questo dovrà continuare, ma, secondo l’analisi, dovrà essere accompagnato da progressi in altre aree. Anzi tutto, l’Europa continua a mancare di un quadro comprensivo di politiche per sostenere lo sviluppo di fonti alternative, in particolare sul fronte delle infrastrutture. Anche se, per esempio, le compagnie stanno investendo in punti di ricarica per i veicoli elettrici, la creazione di questa infrastruttura non può essere lasciata solo alle compagnie. E’ necessaria poi la consapevolezza che assicurare che il settore dei trasporti in Europa sia alimentato con energie rinnovabili non è solo una questione di mitigare gli effetti climatici, ma anche di aumentare la sicurezza energetica, un elemento che è emerso con tutta evidenza con le recenti vicende di mercato e geopolitiche.
Lo studio suggerisce inoltre lo sviluppo di alternative ai prodotti petrolchimici. Il petrolio infatti è la materia prima per la produzione di combustibili per i trasporti, ma anche per molti prodotti che consumiamo, dai tessili ai farmaci. Anche questi hanno bisogno di alternative rinnovabili. Gli sforzi per vietare l’uso singolo delle plastiche è importante, ma molti più prodotti devono vedere una riduzione nell’uso, un corretto riciclo e la sostituzione con alternative.