Siamo abituati dalla storia appresa con metodo scolastico a riflettere sulle singole tappe (la guerra, l’incoronazione di un re, la morte di un personaggio e così via), mentre non abbiamo imparato a osservare un accadimento in termini processuali, ossia come un divenire, un processo.
Anche nella situazione che stiamo vivendo a scala globale assegniamo istintivamente un senso a come era prima (come eravamo), e al dopo (come saremo) trascurando la fase che stiamo vivendo, che leggiamo come una parentesi destinata, ci auguriamo, a terminare il più presto possibile per lasciare posto a un mondo cambiato in tutto o in parte o (confidiamo) ritornato come era prima. Nella nostra mente primitiva e antiquata (Günter Anders) tendiamo ingenuamente a modellare la realtà come se gli accadimenti fossero governati da un interruttore bipolare (switch) con due nette posizioni: on/off, bianco/nero, attivo/spento.
Se prendiamo ad esempio un aspetto che ritengo importante mettere all’attenzione della comunità del business, come quello del rapporto tra uomo-macchina e quindi anche tra esseri umani per il tramite della macchina, ciò che sta succedendo ci dimostra con più chiarezza quello che il sociologo tedesco, coevo di Baumann, Ulrich Beck tentò di spiegarci con il suo saggio del 1986 “La società del rischio”. Beck ci mette in guardia in tempi non sospetti dall’idea di sicurezza, perlomeno nei termini assolutistici e imperativi che questo concetto ha assunto nella contemporaneità inducendoci a pensare in modo proattivo alla ricerca e alla conquista della sicurezza totale come un atto dovuto e indispensabile in una società evoluta e civile.
Secondo Beck – “la sicurezza” -, come – “la felicità” – , è un concetto che ha finito per pervadere le nostre scelte condizionandole in nome di un aspetto che non ha mai riguardato l’evoluzione dell’essere umano, così come non riguarda la totalità degli esseri viventi che esistono in balìa di accadimenti che il fattore tempo governa: esistono istanti di sicurezza, esistono ponderabili margini di sicurezza, ma mai la sicurezza in senso assoluto. Cercarla o pretenderla, in modo tassativo e cieco, come abbiamo fatto anche in questo frangente difficile della pandemia condiziona il comportamento delle persone, paralizza il business più florido, impedisce di accettare mediazioni del fattore rischio e abilitarci a una contrattazione continua con esso e con le conseguenze di una sua mancanza.
Oltre a ciò l’occasione della Pandemia in corso è stata un banco di prova di incredibile portata rispetto ad una pratica che già conoscevamo e utilizzavamo in grande quantità, ma dalla quale non sembrava ancora dipendere la nostra sopravvivenza: la mediazione della macchina (spesso intesa come computer/rete/smartphone, ma non solo). Se il nostro lavoro ha potuto continuare, se la nostra vita ha assunto per alcuni mesi, a scala mondiale, la parvenza della sopportabilità, se il sistema non è crollato su sé stesso, lo si deve sostanzialmente a invenzioni e sistemi che sono stati immaginati, inventati, costruiti e sviluppati su scala planetaria invadendo ogni settore e abilitando un numero davvero mai accreditato prima di persone (alcuni miliardi) molto prima e senza tenere in minima considerazione quello che è accaduto.
Lo sappiamo, nulla di nuovo. Ciò che è invece interessante mettere in luce è che nello spazio, che solitamente davamo per scontato, lo spazio e il modo in cui ci relazionavamo con la macchina e tra di noi tramite la macchina, la Pandemia ha costruito un’area di conoscenza e competenza che è diventata di colpo importantissima e condizionante per la nostra vita normale, dunque importantissima e condizionante per ogni forma di business. É nato un territorio di competenze da esplorare e studiare, che Daugherty e Wilson. nel 2019 chiamavano il territorio dei Fusion Skills stigmatizzando un’area del sapere e della sperimentazione pratica che evolve dalla tradizione dello Human Machine Interaction (molto manifatturiera e strumentale nel senso di B2B) fondendo insieme conoscenze tipicamente humanities and economy centered con altre tipicamente digital, AI, machines, oriented.
L’esempio più vicino a tutti noi è il territorio della formazione e dell’education. Di colpo ogni processo di relazione apprenditiva (dalla scuola all’addestramento militare, passando per ogni forma universitaria o aziendale) è diventato solo mediato dalla macchina. Tutte attività e tecnologie che esistevano e fruivamo da anni, poco di veramente nuovo, ma che solo nella sua istantanea e totale applicazione digitale obbligatoria ha dimostrato che non era più possibile immaginare la mediazione digitale come il transito in bit dei processi molecolari di tipo frontale tradizionale basati sulle relazioni interpersonali.
Nelle nostre organizzazioni e imprese ce la siamo cavati se prontamente abbiamo attivato il personale delle IT e lo abbiamo affiancato con i più “smanettoni” tra gli altri collaboratori, spesso selezionati nella generazione dei nativi digitali che ancora facevamo fatica a far accedere al nostro core business in attesa di adeguata gavetta. Fortunatamente in molte realtà il vertice era da tempo connesso e agile nell’impiego dei processi internettici di controllo e gestione. Ma quello che non era per nulla scontato ha riguardato due fenomeni:
- la immediata e totale smaterializzazione dell’impresa e della sua organizzazione (niente più uffici del capo, niente più filtri di portierato o di reception, niente più benefit, niente più architetture fisiche di rappresentazione, niente più vetrine, niente più riunioni, niente più documenti, niente più pacche sulla spalla e alzate in piedi di rispetto… cose, persone, perfino le parole tradizionali si sono vaporizzate);
- la mancanza di un corpo di soggetti che nell’organizzazione siano capaci di fondere un livello adeguato di competenza nelle relazioni umane e nelle sue manifestazioni e forme con un’adeguata competenza digitale tecnologica che servono insieme in modo fuso per costruire la nuova e inedita totale architettura dell’impresa e soprattutto un nuovo modo di manifestarsi B2C in continuo nello spazio tempo radicalmente e totalmente diverso della pandemia.
Questo mi sembra un esempio chiaro del “per-durante” ossia di un passo sul quale non torneremo, non potremo tornare indietro e che non ha ancora trovato un suo assetto definitivo. Un evento disruptive destinato a durare nel tempo perché siamo fatti di corpo e di mente e i nostri processi neurali si sono formati ed adattati lentamente alla rivoluzione agricola lasciandoci quel cervello e quei comportamenti che ci hanno fatto adattare a fatica e in sei mila anni circa ad una diversa condizione spaziale, climatica, relazionale. Nel “per-durante” della Pandemia, a Pandemia terminata (speriamo presto), dovremo fare i conti con azioni coerenti con “la società del rischio” e con la necessità di avere fusion skill che ci aiutino a costruire il nuovo mondo che è ancora pressoché inesplorato della relazione uomo-macchina totale.