Un Mentor in BBS. La sfida del guidare, la gioia del veder crescere.

Dicembre 18, 2020

Eugenio Sidoli, Senior Executive e Independent Board Member, membro dell’Advisory Board di Bologna Business School e Mentor nell’Hybrid MBA, ci racconta in questa intervista cosa significa per lui fare il Mentor in BBS.

Cosa fa un Mentor e cosa ti ha fatto decidere di raccogliere questa sfida?

Quando il Professor Visani – Direttore del primo Hybrid MBA in BBS – ha proposto a metà 2020 di avviare un executive master con una forte partecipazione online rispetto alla presenza on-campus, mi ha chiesto di affiancarlo per condividere con gli iscritti la mia esperienza manageriale, quella parte del ruolo di un leader che ha a che fare con la gestione di situazioni ambigue e paradossali che si affrontano con strumenti che non si imparano sui banchi di scuola, ma su quelli della vita. Nel mondo di oggi le chiamiamo soft skills, fondamentali per la formazione di una classe dirigente, tanto quanto le discipline e le tecniche che già si insegnano in ogni master di BBS.

L’affinamento delle soft skill è un’esigenza emersa prepotentemente all’interno del macrotema della formazione manageriale da quando ha iniziato ad affermarsi il mondo digitale e tecnologico che sta disintermediando le persone sui temi più tecnici in molti ambiti professionali. Per questo BBS ha decisio di integrare le lezioni delle discipline dell’MBA con una nuova competenza applicata.

Ho accettato con piacere perché penso che non ci sia lavoro più motivante che condividere ciò che ho imparato, trasformando la mia esperienza in case studies e vedendo crescere qualcun altro.

Dovrò gestire interazioni online di gruppo: 40 executives con profili molto eterogenei. È una circostanza interessante anche per me perchè fino ad oggi la mia esperienza di mentoring, shadowing e coaching era stata essenzialmente one-to-one.

Nel mondo della remotizzazione delle interazioni professionali, dello smart working e della mancanza di contatto umano in quelle occasioni quotidiane che ci permettono di far nascere e sviluppare una relazione, anche io devo adeguare le mie abilità al mutato contesto e mantenermi all’altezza del ruolo che il tempo mi richiede. Una bella sfida.

Soft skills: è un termine di cui sentiamo parlare molto spesso, ma non è così chiaro a tutti. Cosa sono?

Le soft skill fanno riferimento a nostre qualità personali, ai nostri comportamenti e alla nostra socialità; alcune sono innate, come l’adattabilità per esempio, la maggior parte si apprendono e si sviluppano con l’esperienza, sono cumulative e sono trasferibili.

Nella prima fase di una carriera impariamo un lavoro e acquisiamo quelle competenze tecniche che sono necessarie per esercitare la nostra professione con autorevolezza (le hard skills); crescendo, e acquisendo la responsabilità di guidare altri, è la nostra efficacia sulle soft skills che ci permette di costruire autorevolezza come leader.

Esempi di soft skills sono la nostra capacità comunicativa, il nostro modo di porci nei confronti degli altri, la nostra attitudine nei confronti dell’incertezza o la nostra capacità di gestire conflitti.

Possiamo dire che le soft skill fanno leva su tre forme di intelligenza: l’intelligenza emotiva (capacità di mettersi in contatto con l’altro), l’intelligenza politica (capacità di avere totale comprensione del contesto e farlo proprio) e l’intelligenza spirituale (capacità di collocare i nostri atti in un contesto più ampio e sviluppare il commitment necessario ad eccellere). Il terreno delle soft skills è quello della psicologia e delle scienze cognitive…

Come fa un Mentor a trasmettere la sua conoscenza su un’area così effimera, così evanescente, come quella delle soft skills?

Un Mentor è un consigliere, una guida, un advisor; qualcuno che ha superato con successo esperienze simili a quelle che stai vivendo tu e può aiutarti ad accelerare la tua crescita. L’abilità nel trasferire esperienza è nello storytelling, nel condividere con esempi che siano rilevanti e rendano quelle esperienze vivide.

Attraverso lo storytelling della propria esperienza personale si crea un rapporto con chi sta per confrontarsi con un’esperienza simile. Chi ha camminato sulla tua stessa strada prima di te è infatti attrezzato per darti indicazioni sulle buche, sulle curve, sulle asperità e può raccomandarti cambi di rotta per evitare ostacoli pericolosi. Questo non elimina il rischio dell’errore, certo, ma conoscere il modo con cui si possono superare i propri momenti difficili può essere di grande aiuto.

Qual è la natura del rapporto Mentor / Mentee?

Il mentor è a disposizione dello sviluppo del mentee – o di un gruppo – senza avere un’agenda personale. Lo fa perché crede nella condivisione e nel ruolo. In un rapporto one-to-one ci si sceglie; la relazione nasce per affinità elettiva. Quando funziona è ricca, franca e fiduciaria; mentor e mentee crescono insieme. Il mentor è colui al quale il mentee racconta le proprie ambizioni, idee, progetti e aspirazioni; una figura che sa ascoltare ed indirizzare verso una crescita sia professionale che umana. In un contesto di gruppo, soprattutto eterogeneo, è più complesso; non è detto che tutti ne beneficino in uguale misura, ma la sfida sta proprio li: toccare tutte le corde e lasciare un segno.

Fuori dal contesto aziendale un mentor è un “maestro” in senso lato, l’insegnante che al liceo è riuscito a farci innamorare di una materia che da soli non saremmo riusciti ad apprezzare.

Quando siamo stati bambini, un mentor ci ha insegnato ad andare in bicicletta; ci ha consegnato un mezzo, ci ha spiegato il suo funzionamento e ci ha consigliato come usarlo. Ha poi creduto in noi, ci ha motivati ed ha tolto le rotelline di sicurezza per farci provare da soli l’ebbrezza dell’equilibrio. Ha usato la sua sensibilità per capire quando farlo ed ha avuto il coraggio di vederci cadere, decidendo dove farlo accadere – per esempio su un terreno erboso e morbido invece che su una ripida discesa asfaltata – offrendoci al contempo responsabilità e feedback, un’incitazione a prendere il rischio e ad imparare dall’errore.

Facciamo un esempio concreto. Una delle cose che tutti vogliono imparare è come ricevere l’attenzione dei propri capi. Come si fa a farsi ascoltare da un capo?

Per farci ascoltare dobbiamo lavorare sulla chiarezza dei nostri messaggi e rispettare il tempo dell’altro; per questo la preparazione di qualunque comunicazione è una fase fondamentale della “vendita”. Sempre. Vale se cerchiamo ascolto da parte di un superiore, se chiediamo ascolto ad un collega che ha altre priorità ed una sua agenda molto fitta o se chiediamo attenzione ai nostri collaboratori.

L’assenza di ascolto nasce spesso da una cattiva comunicazione, da percezioni che abbiamo lasciato e si sono sedimentate, da pregiudizi o dalla insensibilità di chi ci chiede tempo, quando non lo usa con rispetto.

Ascoltiamo chi ci ingaggia. Pochi messaggi, chiari, efficaci e ben strutturati nella fase di delivery raccolgono di più di una piena di parole, lasciano spazio ad una interazione costruttiva e costruiscono rispetto professionale e fiducia.

Per farci ascoltare dobbiamo riuscire a stimolare il nostro interlocutore e sollecitare una reazione. Il modo in cui ci posizioniamo nella comunicazione raccoglie ascolto, o crea barriere. Sapendolo non possiamo lasciare le nostre comunicazioni al caso: ogni ingaggio deve essere ben pianificato e deve focalizzarsi su pochi argomenti, quelli importanti.

Se vogliamo ascolto – anche dal nostro capo – dobbiamo scegliere la nostra battaglia, prepararci, andare al punto senza giri di parole, con una sintesi chiara, e lasciare spazio per le domande.

Per farci ascoltare dobbiamo saper comunicare – è una soft skill strategica – e per imparare a comunicare è bene copiare chi lo sa fare. La comunicazione è un’arte che si impara. Un consiglio pratico: andate su TED a guardare 50 video; segnatevi ciò che vi ha colpito e scegliete i vostri modelli, quelli che vi assomigliano di più, le personalità che vi hanno conquistato. Poi studiate con attenzione i loro trucchi e fateli diventare i vostri…



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